Resistenza e resilienza: le caratteristiche delle cooperative sociali in tempo di pandemia

Si celebra oggi la giornata internazionale delle cooperative e il tema scelto per quest’anno dall’Onu e dall’Ica (International Cooperative Alliance) è “Ricostruire meglio insieme”. Quest’anno, inoltre, si celebra il 30esimo anniversario della nascita delle cooperative sociali, come forma originale di impresa, in quanto la legge che le regola è del 1991. La loro vera differenza, il valore aggiunto, sta nel fatto che incorporano non solo il valore mutualistico dei soci, ma generano anche un valore che si riverbera nella società. Non producono solo un vantaggio economico a favore dei soci, ma anche un valore sociale a vantaggio della comunità in cui sono inserite.

In particolare, c’è una categoria – le coop sociali di tipo B – che hanno una funzione molto importante: inserire nel mondo del lavoro persone che presentano una qualche forma di disabilità, che nel passato hanno avuto problemi di tossicodipendenza o quanti sono usciti dal carcere, insomma quei segmenti deboli del mercato del lavoro che farebbero fatica a trovare una collocazione o vocazione lavorativa.

L’Italia è stata la prima in Europa ad avere una legge così avanzata ed innovativa che supera il principio di mutualità e per incorporare quello di solidarietà, cioè genera del valore economico e sociale che va a favore delle categorie con maggiore svantaggio e delle comunità che presentano elementi di marginalità. Questa innovazione poi è stata “copiata” in molte parti d’Europa e oggi le imprese sociali – una categoria più larga e vasta di quella di cooperazione sociale – rappresentano una parte tutt’altro che irrilevante dal punto di vista delle generazione del valore economico, ovvero del Pil, e dell’occupazione a dimensione europea.

Soprattutto in questo tempo di pandemia, le cooperative legate al terzo settore hanno rappresentato una “manna dal cielo” per molte persone e territori. Molte di loro si sono riconvertite per rispondere a un bisogno che era inedito e, pur non perdendo la loro dimensione imprenditoriale originaria, hanno però accompagnato i soggetti più deboli, molte volte dimenticati dai provvedimenti governativi, oppure hanno reinventato la loro capacità produttiva. Più in generale hanno continuato a svolgere la loro attività che di per sé contiene già una dimensione solidaristica che il legislatore va a premiare con un trattamento fiscale di vantaggio.

leggi il mio articolo su Interris del 14 luglio 2021

Luigi BobbaResistenza e resilienza: le caratteristiche delle cooperative sociali in tempo di pandemia
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Verso una proposta di legge per l’apprendistato formativo ed il contratto di inserimento lavorativo

 

Dopo una iniziale forte accelerazione concomitante con la sperimentazione del sistema duale di apprendimento avviata nel 2016/2018, l’apprendistato formativo di I e III livello (D.Lgs 81/2015 – Titolo V) ha subito un sostanziale rallentamento. Il primo si attesta oggi attorno agli 11 mila apprendisti assunti annualmente, il secondo, non raggiunge i mille contratti (fonte COB – MLPS).

Lo strumento che, più di ogni altro, ha dimostrato di essere un efficace mezzo per ridurre la lunga transizione dei giovani italiani tra la fine degli studi e l’inserimento lavorativo e che ha dato buoni risultati nel contrastare la dispersione scolastica, rappresenta oggi in Italia un segmento del tutto marginale del mercato del lavoro, nonostante le forti aspettative che aveva suscitato. Oggi è la sfida del post covid 19 che ci obbliga a fare i conti con una forte ripresa della disoccupazione giovanile e con un inadeguato assetto delle politiche attive -soprattutto riguardanti le insufficienti sinergie con i sistemi di istruzione e formazione professionale-. Questa stessa sfida ci pone con forza la questione di rendere più incisivo l’intero assetto dell’apprendistato formativo sia per potenziare l’inserimento lavorativo dei giovani, sia per allargare l’area di intervento di questo contratto di formazione e lavoro verso i lavoratori in transizione, i giovani NEET, i disoccupati di lunga durata, i percettori di reddito di cittadinanza, i lavoratori in cassa integrazione o in Naspi. (continua)

 

leggi l’articolo di Luigi Bobba (Presidente di Terzjus), Maurizio Drezzadore (Consulente di Formazione), Marco Muzzarelli (Direzione Nazionale Fondazione ENGIM) su Bollettino ADAPT 12 luglio 2021, n. 27

Luigi BobbaVerso una proposta di legge per l’apprendistato formativo ed il contratto di inserimento lavorativo
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“Cattolici, l’orizzonte globale tra identità e resilienza” – articolo di Luigi Bobba su «La città – giornale di società civile» n. 18

Nel luglio 2001, alla vigilia del vertice G8 di Genova, anche le associazioni della società civile di area cattolica come le ACLI, riunite sotto lo slogan “Sentinelle del mattino” lanciato da Giovanni Paolo II, fecero sentire la loro voce con una manifestazione pacifica e composta nel capoluogo ligure.

Toccò a me come Presidente nazionale delle Acli spiegare le ragioni della nostra originale posizione “new global”. All’inizio del terzo millennio, quelle associazioni cattoliche volevano esprimere soprattutto la loro volontà di intraprendere un nuovo cammino certamente aperto alla globalità, ma da intendere sempre come pluralità culturale di valori e di colori, come convivialità delle differenze e ricchezza dei punti di vista, mai come omologazione, uniformità e conformismo. Come denunciavo testualmente nel mio intervento “la globalizzazione senza re­gole aumenta la solitudine del cittadino, lo fa sentire ancor più inutile e impotente, lo indebolisce nella sua identità culturale e nel suo radicamento territoriale, lo rende omologato al sistema e al Pensiero Unico, riducendo la memoria collettiva e il suo legame vitale con il passato. Inoltre, rende più confuse le prospettive di futuro, rinchiudendo il suo orizzonte in un presente statico e piatto, rassegnato e in difesa.”.

Leggi l’articolo su «La città – giornale di società civile»

Luigi Bobba“Cattolici, l’orizzonte globale tra identità e resilienza” – articolo di Luigi Bobba su «La città – giornale di società civile» n. 18
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“Se non io, chi per me” – intervista a Luigi Bobba di Vincenzo Saccà su «Strade Aperte – Argomenti» periodico di cultura del MASCI, Luglio-Agosto/2021

Le ragioni di un impegno politico dei cattolici nella società e nelle istituzioni, con i piedi piantati nel presente e con lo sguardo rivolto al futuro (e senza pensare di tornare al passato)

Luigi Bobba, cattolico, impegnato nel sociale e nella politica, ex Presidente delle ACLI, ex Sottosegretario di Stato al Ministero del Lavoro e 7delle Politiche Sociali, “padre” della legge sul Terzo Settore, perché questo suo impegno politico/sociale? in quale contesto si è sviluppato? quale motivazione lo ha animato?

Le radici del mio impegno politico sono interamente in quello che viene chiamato il sociale cattolico. Dall’Oratorio all’attenzione, per quello che negli anni ‘ 70 era chiamato Terzo Mondo; dalla frequentazione della Comunità ecumenica di Taizé a quella di Bose; dall’ esperienza di una scuola popolare per lavoratori adulti che volevano conseguire la terza media, al giornale studentesco “Acido solforico”; dal “Collettivo giovani democratici” alle prime esperienze nelle Acli, con la nascita del circolo nel mio piccolo paese del vercellese. In questo contesto e con questa cultura sono cresciuto, avendo avuto la fortuna sia di potermi abbeverare ad una tradizione culturale ricca e vivace, ma soprattutto di fare esperienza sul campo, di provare ad inverare ciò che mi appariva necessario per un mondo più giusto ed accogliente. Quella spinta era altresì favorita dall’esistenza di luoghi , persone, riviste che contribuivano a imprimerle direzione e solidità; a trasformare le fiammate, tipicamente giovanili, in qualcosa di duraturo, capace di lasciare tracce significative per una vita intera.

leggi l’intera intervista di Vincenzo Saccà a Luigi Bobba su «Strade Aperte» periodico di cultura del MASCI, Luglio-Agosto/2021

Luigi Bobba“Se non io, chi per me” – intervista a Luigi Bobba di Vincenzo Saccà su «Strade Aperte – Argomenti» periodico di cultura del MASCI, Luglio-Agosto/2021
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La nuova formazione post diploma. Una sfida per enti pubblici e aziende private

di Luigi Bobba, Presidente di Terzjus, e Maurizio Drezzadore

Nati nel 2010 con l’obiettivo di far sorgere una filiera formativa a carattere terziario ispirata al modello delle Fachhochschulen tedesche e delle Scuole Universitarie Professionali svizzere, i percorsi ITS (Istituti Tecnici Superiori) sono stati regolamentati con durata biennale e triennale, con l’obbligo di prevedere almeno il 30% delle ore in stage aziendale e almeno il 50% delle ore assegnate a docenti provenienti dal mondo del lavoro. È stata questa la risposta del sistema di istruzione, fortemente voluta da Confindustria, alla fase di straordinari mutamenti tecnologici che stanno modificando strutturalmente il sistema socioeconomico italiano.

Con un alto tasso di occupazione – attorno all’80% – con capacità di cogliere le tendenze al cambiamento dei processi economici e con una significativa flessibilità, i percorsi di ITS hanno conosciuto una forte legittimazione ed un esteso riconoscimento. Ben presto tuttavia si è dovuto cominciare a fare i conti con alcuni limiti strutturali. In primis, il modesto numero di giovani coinvolti nell’offerta formativa, risultanti 13.381 nel maggio del 2019 (ultimo rapporto disponibile del  Miur); dato che evidenzia  ben tre criticità: la scarsità di risorse impiegate, la complessità del sistema organizzativo (strutturato in fondazioni con non pochi problemi di patrimonializzazione, di governance ed elevati costi di gestione) e l’irrisolta competitività con la laurea breve, titolo che mantiene una forte attrattività vista l’analoga durata dei percorsi formativi. Ulteriore criticità riguarda i percorsi finanziati che nel 2019 sono stati 139, incardinati in 73 fondazioni, ciascuna con un proprio consiglio d’amministrazione. Visto che non si arriva mediamente a due percorsi per fondazione, si tratta di una macchina con tanti piloti (quante sono le componenti di gestione previste dalla legge: Università, Istituti superiori, Centri di formazione professionali, imprese), con tanti costi, ma con ben poca benzina per correre. Va altresì ridimensionato il dato circa il successo nell’inserimento lavorativo, poiché oltre il 60% dei contratti di lavoro stipulati al termine dei percorsi è costituito da tempi determinati o da lavoro autonomo in regime agevolato.

Nonostante la spinta esercitata dagli Enti di Formazione Professionale per consentire l’accesso agli ITS dei propri iscritti, solo il 9% proviene dal sistema della IeFP, ovvero di giovani che hanno conseguito il diploma quadriennale, più il quinto anno.  Né sembra facile immaginare che venga accolta la proposta degli stessi Enti di Formazione Professionale, rivolta a consentire l’accesso agli ITS con il semplice diploma professionale quadriennale, visto che gli ITS si configurano come formazione terziaria, con ammissione tramite la maturità quinquennale. Si deve ulteriormente aggiungere che gli esiti valutativi sull’intera offerta formativa degli ITS, evidenziano come solo il 53% dei percorsi supera la sufficienza e il 24% viene classificato con una valutazione problematica o critica. Se al proprio nascere questa offerta formativa rappresentava una assoluta novità, oggi ci troviamo di fronte ad una molteplicità di proposte. La vera svolta infatti si è avuta alla fine del 2015, con l’introduzione nel nostro ordinamento del sistema di formazione duale; tale novità ha sottratto agli ITS il primato di essere l’unico percorso di istruzione con apprendimento on the job.

Oggi, disponendo delle risorse del programma Next Generation Eu, dobbiamo scegliere come allocarle e ancor di più come riorganizzare i sistemi formativi. La proposta, che qui sinteticamente viene esposta, mira a qualificare la formazione dei giovani avvicinandoli, sempre di più, a competenze innovative sia nell’ambito digitale sia nelle filiere dello sviluppo sostenibile, ma anche alla presa in carico di una parte della vasta platea dei NEET e al contrasto alla disoccupazione adulta attraverso la riqualificazione delle figure professionali obsolete.

Innanzitutto, va ripristinato un monte ore adeguato di apprendimento in contesto di impresa attraverso l’alternanza scuola-lavoro negli istituti secondari; va inoltre rafforzato, sia per la IeFP che per gli Istituti Tecnici e Professionali, il ricorso all’apprendistato di primo livello.  Per l’apprendistato formativo, nella versione del PNRR di fine febbraio, venivano stanziate risorse per 600 milioni con un sostanziale raddoppio del numero dei giovani coinvolti nei percorsi duali e l’avvio di ulteriori 11.000 contratti di apprendistato formativo.

Relativamente agli ITS ed IFTS, sempre nel PNRR, vengono allocati circa 1,5 miliardi con i quali si possono sia aumentare consistentemente i percorsi ITS sia allargare gli interventi di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore, completando così la verticalizzazione della filiera della IeFP con il quinto anno e offrendo nuove opportunità di inserimento lavorativo ai NEET. In entrambi i casi è utile ricorrere all’apprendistato formativo.

Infine, relativamente agli interventi di reskilling, con la legge 34 del 2020 è stato creato il Fondo nuove competenze con una dotazione di 730 milioni, che potranno essere ulteriormente aumentati di 1 miliardo per effetto del PNRR. Si tratta di interventi di riqualificazione di lavoratori occupati a sostegno dei processi di innovazione delle aziende in uscita dalla crisi pandemica. La misura finanzia all’impresa, attraverso un programma dell’ANPAL, il costo del lavoratore per l’intero monte ore di formazione.

La presa in carico da parte del PNRR di queste proposte rappresenterebbe non solo un efficace intervento a sostegno della ripresa, ma significherebbe anche dare un nuovo e più efficiente assetto all’insieme dei sistemi formativi, superando gli storici ritardi di cui soffre il nostro Paese e avviando la costruzione di solidi processi di integrazione tra le politiche attive del lavoro, i servizi di collocamento e gli interventi di formazione.

dal sito FoAL, Fondazione Antonio Lombardi, 20 Maggio 2021

Luigi BobbaLa nuova formazione post diploma. Una sfida per enti pubblici e aziende private
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Formazione duale e reskilling

L’occupazione è la prima sfida di Mario Draghi. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza su cui il Governo sta lavorando sarà fondamentale per rilanciare il lavoro. Sul numero del magazine di marzo proviamo a indicare un orizzonte possibile, concreto e ad alto impatto

leggi qui l’articolo di Luigi Bobba pubblicato a pag. 29 di Vita Magazine, #3 marzo 2021

Il nuovo governo e il ministro del Lavoro Andrea Orlando si troveranno subito di fronte ad una scelta rilevante: se prorogare o meno il blocco dei licenziamenti in vigore fino al 31 marzo. Stop ai licenziamenti, nuovo piano ristori per autonomi e collaboratori e Cassa integrazione sono temi spinosi ma che rappresentano solo la parte emersa dell’iceberg. Ma allo stesso tempo, il rischio di di un impatto devastante deriva ancor di più dalla parte nascosta dell’iceberg – lavoro. E, come si sa, ciò che le acque nascondono è molto più grande e pericoloso,di quello che riusciamo a vedere in superficie. Fuor di metafora, la parte nascosta dell’iceberg è rappresentata dai dati che l’Istat ci ha messo sotto gli occhi poche settimane fa. Nonostante il blocco dei licenziamenti, il sistema Italia ha perso nell’ultimo anno 444.000 occupati. Di questi, i tre quarti sono donne. Il prezzo più pesante lo hanno pagato le persone con contratto a termine (-393.000) e i lavoratori autonomi (- 209.000). Il 30% circa dei giovani sono inoccupati e si è gonfiato il numero degli inattivi,cresciuti di 150.000 unità. Come evitare che giovani, donne, precari e lavoratori autonomi siano ulteriormente colpiti dalla crisi pandemica? Certo, bisogna investire,fare “debito buono”come ha detto il presidente del Consiglio Draghi, creare cioè le condizioni perché le imprese possano crescere ed innovare. Ma non basta. Uno dei nodi irrisolti riguarda la carenza di politiche attive del lavoro. Ecco una delle priorità del PNRR, da tener ben presente nella riscrittura che il nuovo Governo intende fare. Per questa “missione” suggerisco tre vie che presuppongono sia un’adeguata destinazione di risorse,che una necessaria riforma delle attuali normative.

Innanzitutto, sviluppare il sistema duale della formazione. Nato con il Jobs Act, è incentrato essenzialmente su due strumenti: apprendistato formativo e istruzione tecnica superiore. Quali le ragioni per motivare tale scelta? Primo:per abbattere il tasso di abbandono scolastico nel conseguimento della licenza dell’obbligo e dei titoli secondari – oggi superiore al 16% – per portarlo, come ci chiede la UE,sotto il 10%. Secondo: il nostro Paese,nonostante l’alto tasso di inoccupazione giovanile, presenta un forte mismatch tra domanda e offerta di lavoro. Unioncamere ci dice che le imprese hanno difficoltà a reperire operai specializzati, tecnici, professionisti e artigiani sia per carenza di candidati che per mancanza delle competenze necessarie. Il sistema duale di istruzione e formazione si è rivelato – in questi ultimi tre anni – uno strumento efficace per ridurre l’abbandono scolastico e favorire la transizione scuola/lavoro. Forma – la principale rete delle agenzie formative accreditate dalle Regioni – ha avanzato una proposta che l’ultima versione del PNRR ha recepito solo parzialmente. Serve un investimento di più di 5 miliardi per raggiungere circa 160.000 giovani disoccupati senza un titolo di studio secondario in modo da farli accedere, in apprendistato formativo, all’ultimo anno dei percorsi triennali di Ie FP per il conseguimento della qualifica o del diploma professionale. E di coinvolgere, circa 400.000 Neet con diploma di scuola secondaria, da inserire, in apprendistato duale di terzo livello, finalizzato al conseguimento di un diploma ITS.(Istruzione Tecnica Superiore)

Una seconda via a cui attribuire risorse è il Servizio civile. La legge di bilancio 2021 ha disposto di portare a 300 milioni lo stanziamento annuale, in modo da poter avviare circa 55.000 volontari in servizio civile. Un buon segnale ma insufficiente per accogliere tutte le domande di coloro che vorrebbero fare questa esperienza, che sono 80/100.000 ogni anno. Infatti, il Servizio civile si è rivelato uno strumento utile per far crescere una cultura della solidarietà,ma altresì un modo per consentire ad alcune decine di migliaia di giovani di fare un’ esperienza utile per maturare competenze spendibili per il successivo inserimento professionale. Diverse ricerche ci dicono che la possibilità di occuparsi e la durata della transizione scuola/lavoro sono significativamente migliori per i giovani che hanno fatto servizio civile rispetto alla generalità della popolazione giovanile. E per diffondere la cultura del volontariato e dell’impegno civico si potrebbe altresì sperimentare un’alternanza scuola/servizio civile per tutti i giovani tra i 16-18 anni che frequentano una scuola secondaria o la formazione professionale. Due strade complementari che richiedono complessivamente circa due miliardi di investimento.

Infine,sul piano delle riforme occorre mettere mano rapidamente alla regolazione degli strumenti di inserimento al lavoro dei giovani: tirocinio e apprendistato. La prospettiva è quella di avere l’apprendistato come unico e vero contratto di formazione. Tale obiettivo passa attraverso la revisione sia della normativa sui tirocini che dell’apprendistato. Circa i tirocini si potrebbe seguire la via francese, riducendo drasticamente la possibilità di attivare tirocini extracurricolari e legando la durata degli stessi al tipo di mansione che si andrà a svolgere. E, allo stesso tempo, fissare l’obbligo per i tirocini curricolari ( quelli che vengono attivati durante il percorso di studi) di una retribuzione minima di 350/400 euro mensili . Questa revisione porterebbe a rafforzare il sistema duale di istruzione formazione facendo dell’apprendistato un vero contratto formativo finalizzato ad ottenere, anche lavorando,un titolo secondario o terziario. Oggi l’apprendistato, articolato su tre livelli, è troppo macchinoso per poter essere facilmente utilizzato dalle imprese che, in molti casi, anche per il minor costo e i minori vincoli, si affidano ai tirocini. Inoltre,quello più scelto dalle imprese non è un vero contratto formativo,- l’ apprendistato di secondo livello – in quanto la formazione è ridotta a meno di 150 ore e non dà luogo al conseguimento di un titolo di studio. Naturalmente anche qui serve un investimento di risorse per ridurre la contribuzione dovuta dal datore di lavoro e sostenere i costi per i tutor aziendali. E, sul versante delle scuole e delle agenzie formative,destinare più risorse per avere moduli formativi flessibili e compatibili con l’organizzazione delle imprese,introducendo la figura professionale del tutor per l’orientamento e l’inserimento al lavoro.

In sostanza, rafforzamento del sistema duale di istruzione, revisione della normativa su tirocinio e apprendistato e realizzazione di un servizio civile veramente universale darebbero forma ad un investimento sui giovani come unica e vera garanzia di equità generazionale. Non dimentichiamo che i 2/3 delle risorse di Next Generation Eu, dovremo restituirle entro il 2058 . Dunque, stiamo impegnando risorse di cui i nostri figli e nipoti avranno l’onere di restituire. Solo cosi il PNRR sarà veramente un programma da Next Generation Italia. 

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Luigi BobbaFormazione duale e reskilling
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La riforma del Terzo settore e la tradizione sociale della Chiesa. Intervista a Bobba (Terzjus)

Volontariato in evoluzione e dottrina sociale della Chiesa: intervista di Interris.it a Luigi Bobba, presidente di Terzjus, l’Osservatorio di diritto del Terzo Settore, della filantropia e dell’impresa sociale

La lezione solidale della carità cristiana e l’apporto del Terzo Settore all’uscita dalla crisi Covid. Interris.it ha intervistato Luigi Bobba, tra i più autorevoli esponenti del cattolicesimo sociale italiano. Da sempre in prima linea nel volontariato, Bobba presiede Terzjus, osservatorio giuridico sui diritti del Terzo Settore.

leggi l’articolo su Interris.it del 12 febbraio 2021

Luigi BobbaLa riforma del Terzo settore e la tradizione sociale della Chiesa. Intervista a Bobba (Terzjus)
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Sussidiarietà Amministrazione condivisa: disco verde

di LUIGI BOBBA presidente Terzjus e LUCIANO GALLO avvocato esperto di rapporti fra Terzo settore e pubblica amministrazione

La sentenza n. 131 del 26 giugno 2020 della Corte costituzionale ha fornito un’interpretazione particolarmente innovativa degli art. 55 e 56 del Codice del Terzo settore (Cts); sentenza, che ha poi trovato immediato riscontro in una norma del decreto “Semplificazioni”. La Corte ha infatti ricostruito ed affermato il rapporto fra il principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale ed il Cts, che ne costituisce l’organica e strutturata declinazione. Inoltre la particolare relazione che si crea fra Enti di Terzo settore (Ets) ed enti pubblici, in quanto finalizzata allo svolgimento di attività di interesse generale, dà vita alla “amministrazione condivisa”. Si tratta dunque, di una relazione collaborativa che, in ogni caso, deve essere “procedimentalizzata”, ovvero deve rispettare i principi e le regole dei procedimenti amministrativi. A distanza solamente di un paio di mesi, è poi intervenuta la modifica del Codice dei contratti, ad opera della legge 120/2020, che ha “fatto salve” le forme di coinvolgimento degli Ets previste dal Cts rispetto alle ordinarie modalità di affidamento di servizi pubblici in forma esternalizzata e dietro pagamento di corrispettivo. Ecco, allora, che la scelta fra l’amministrazione condivisa o l’affidamento di un servizio mediante appalto è, in primo luogo, di tipo politico.  Nell’ambito dell’amministrazione condivisa, Ets ed enti pubblici diventano soggetti che collaborano per lo svolgimento di attività di interesse generale; nell’ambito di una procedura competitiva concorrenziale, invece, ciascuna delle parti si impegna ad una propria obbligazione (esecuzione del servizio e pagamento del corrispettivo). Ne consegue che l’utilizzo degli strumenti del Cts, rappresentata dalla —  verrebbe da dire naturale —  “convergenza” degli interessi delle parti, accomunate nello svolgimento di attività di interesse generale, genera una vera e propria “comunione di scopo”. L’amministrazione pubblica non è più il solo titolare del bene comune, ma questo si realizza anche mediante una cooperazione con gli Ets. Gli interessi delle parti, dunque quelli pubblici e privati, devono necessariamente convergere nell’attività di collaborazione, che —  come ha ricordato la Corte —  si sostanzia nella “messa in comune” di risorse di vario genere, oltre alla condivisione delle finalità. Viceversa, nell’ambito di una relazione contrattuale derivante da un appalto, gli interessi delle parti sono e restano distinti per tutto il rapporto contrattuale; quello della stazione appaltante ad avere l’esecuzione del servizio a regola d’arte; quello del privato esecutore a maturare l’utile d’impresa, derivante dal corrispettivo pagato dalla prima. Pertanto, partendo dalla ricordata “parità” degli strumenti offerti dall’ordinamento (Cts e codice dei contratti pubblici), la scelta a monte dell’ente non è neutra, poiché emerge chiaramente il diverso ruolo degli Ets quali meri prestatori di servizio o, in alternativa, enti da coinvolgere attivamente, a fronte della meritorietà dell’attività (di interesse generale, dunque caratterizzata dalla non lucratività) da svolgere. Un secondo aspetto —  forse quello maggiormente innovativo —  che merita di essere sottolineato riguarda la dimensione del protagonismo degli Ets, nel senso che il Cts prevede, in termini generali, che l’iniziativa possa anche provenire dal privato sociale. Agli Ets, la Riforma assegna un compito, rilevante anche sotto un profilo culturale, di farsi parte attiva, non assumendo solo un comportamento adattivo alle scelte o alle non scelte degli enti pubblici, ma potendo elaborare e presentare proposte progettuali, ancora una volta nel rispetto della disciplina sui procedimenti amministrativi. L’evidenza pubblica resta sempre la via maestra, ma —  in quest’ultimo caso —  è la conseguenza della valutazione positiva, da parte degli enti pubblici, di una proposta progettuale ritenuta meritevole di accoglimento, in quanto di interesse generale e coerente con gli indirizzi e le finalità degli enti pubblici medesimi. Per essere chiari, è quella proposta progettuale, presentata dagli Ets, che diventa parte della successiva procedura ad evidenza pubblica, con la quale eventualmente misurarsi. L’amministrazione condivisa, sotto altra angolatura, come rilevato dalla stessa Corte costituzionale, determina la messa in comune di risorse di vario genere, pubbliche e private, generando così ricadute positive in termini di qualificazione ed efficacia della spesa pubblica. Inoltre, l’attivazione di rapporti di collaborazione, come dimostrato dalle varie esperienze locali svolte nel Paese, elimina il tasso di conflittualità, tipico delle competizioni concorrenziali nell’ambito delle gare d’appalto, con benefici sia per gli stessi bilanci pubblici, non gravati dal contenzioso, che —  più in generale —  per la generazione di un clima di fiducia reciproco. Non va sottovalutato, inoltre, il livello di trasparenza che procedimenti di co-progettazione, di accreditamento e di convenzionamento, svolti ai sensi del Titolo VII del Cts, possono indurre a beneficio non solo di chi vi partecipa, ma anche degli stessi cittadini. Si tratta, dunque, di procedimenti nei quali l’utilizzo di beni e di contributi pubblici deve avvenire “alla luce del sole” e, come tale, essere rendicontato. In questo modo si rendono possibili anche forme di “controllo diffuso”: l’amministrazione condivisa come strumento di partecipazione attiva della cittadinanza. Sono, pertanto, evidenti le varie e significative ragioni, non solo politiche, per avviare —  nella forma dell’iniziativa pubblica (con la pubblicazione di Avvisi) o in accoglimento di proposte progettuali (a seguito dell’iniziativa privata degli Ets) —  forme di amministrazione condivisa. Verrebbe quasi da dire che, dopo la sentenza della Corte e delle modifiche del codice dei contratti, gli enti pubblici dovrebbero motivare e giustificare la scelta di ricorrere agli strumenti del mercato concorrenziale degli appalti e delle concessioni anziché avvalersi delle forme tipiche di collaborazione con gli Ets.

scarica l’articolo a pag. 80 di Vita.it dicembre 2020

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