Don Giuseppe Masiero riposa tra le braccia del Padre

Le foto che vengono pubblicate quando se ne va un amico ci sembrano sempre inadeguate: troppo serie, spesso buie, senza sorrisi perché con la morte c’è poco da scherzare.

Da quando Bepi, all’anagrafe Giuseppe Masiero e per 47 anni “don”, ci ha lasciato, la scorsa settimana, ho trovato in rete solo sue foto sorridenti oppure foto come questa, che di lui dicono molto.

Ti guardava negli occhi don Bepi. Serenamente. Qualunque cosa gli stessi dicendo e qualunque cosa lui dovesse dire a te. Talvolta i confronti non erano, per così dire, morbidi. Ma quello sguardo diretto manteneva fermo, stabile, il collegamento e la relazione. Non era cosa da poco in anni in cui le Acli affrontavano grandi sfide, guidate da anime diverse che non sempre (legittimamente) avevano le stesse visioni, nel clima di cambiamento del XXI secolo che inevitabilmente chiamava in causa l’associazione.

Bepi arrivò in sede nazionale da Padova con quello sguardo e, con quello stesso sguardo, anche se forse non con lo stesso animo, la lasciò tre anni più tardi.

A via Marcora si era presentato con uno zaino snello: l’esperienza di parroco a Sant’Agostino di Albignasego e la sua passione per il mondo del lavoro, con alle spalle un incarico di delegato vescovile per l’apposita pastorale ma soprattutto un impegno concreto nel Movimento Primo Lavoro delle Acli padovane, prima esperienza a partire in Italia sul progetto lanciato da Gioventù Aclista negli anni ’80.

La nomina della Cei, concordata con il presidente Gigi Bobba, che non a caso del Mopl era il papà, segnò un punto di cambiamento profondo marcando un passaggio storico nell’accompagnamento spirituale dell’associazione. 

Don Bepi fu un sacerdote esigente nei suoi anni alle Acli nazionali. Partecipava attivamente a tutti i momenti associativi ed alle riunioni degli organi, senza mai mancare di offrire il suo contributo e la sua riflessione.

Non furono tutte rose e fiori. Bepi faceva fatica a comprendere che le Acli venivano da anni di presenza molto differente, quella di Pio Parisi, che serviva un percorso graduale che coinvolgesse non solo la sede nazionale ma tutta l’organizzazione. Qualche incomprensione fu anche determinata da una dimensione associativa che era diversa da quella dell’Azione Cattolica e dal ruolo di accompagnatore diverso da quello di parroco. Le reciproche mancanze non pregiudicarono mai un rapporto fecondo e stimolante, a tratti di grande intensità come nei percorsi di riflessione legati alle immagini di icone a cui don Giuseppe era particolarmente legato e che divennero una costante nei suoi anni aclisti. 

Ricordo al congresso di Torino del 2004 una estenuante discussione su quale fosse il posto giusto per l’icona di Gesù al pozzo con la samaritana. Dopo due mesi di preparativi sugli allestimenti, Bepi era arrivato la mattina del congresso con il gran quadro e lo aveva piazzato su un cavalletto proprio al centro del palco, davanti al tavolo della presidenza del congresso. Con una trattativa sul centimetro arrivammo a reciproca soddisfazione. 

Ricordo anche il giorno dell’inaugurazione della nuova cappellina all’interno della sede nazionale, voluta proprio da don Bepi, con il pozzo della Samaritana davanti che aveva fortemente voluto e che ormai era divenuto un simbolo del suo servizio. Forse lo abbracciai quel giorno, sicuramente gli dissi, come gli dicevo sempre, che era più cocciuto di un mulo ma, stavolta, anche che quella caratteristica era fondamentale per il “prete delle Acli”. 

A Bepi ed a quel pozzo, che immagino ci sia ancora, mi è venuto da pensare quando Papa Francesco, qualche anno fa, commentando proprio quel passo del Vangelo di Giovanni, ha ricordato che siamo chiamati a non giudicare, ma anche a non tacere, a dire quello che si pensa con umiltà ma anche con chiarezza. In uno dei nostri primi incontri, naturalmente fissandomi, mi aveva detto con quel suo accento veneto: “Dai, dimmi che pensi!”.

Era proprio la cifra di don Giuseppe, quella luce nei suoi occhi fissi sui tuoi, quel sorriso sornione e incancellabile della foto, quella capacità di non vedere mai ostacoli davanti ai suoi obiettivi. Forse proprio quest’ultimo punto, insieme ad una visione non nitida delle dinamiche interne, portò ad un periodo di incomprensioni più dense ed alla fine del suo incarico alle Acli per tornare al mondo, già praticato, dell’Azione Cattolica.

E’, in omaggio a Bepi, anche la cifra di questo ricordo, in cui non si poteva, accanto ai chiari, tacere gli scuri: sono sicuro che non me lo avrebbe perdonato. Soprattutto ora che è davvero al Pozzo e può bere l’agognata acqua della Salvezza.

Maurizio Dreazzadore

leggi la notizia su PadovaNews del 10 marzo 2022

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